Il cinema di John Cassavetes (2007)

UNDER THE INFLUENCE: IL CINEMA DI JOHN CASSAVETES

film in programma a ottobre 2007 ogni lunedì, ore 21.00

Centro Giovanile Cappuccini (via M. Terlizzi, Bisceglie)

01/10 OMBRE (1961)
08/10 VOLTI (1968)
15/10 UNA MOGLIE (1974)
22/10 LA SERA DELLA PRIMA (1977)

Tesseramento cineclubcanudo: euro 10,00 (ingresso riservato ai soci)

“Il film che avete appena visto era un’improvvisazione”
(messaggio finale del film Ombre, del 1961)

“Preferirei lavorare nelle fogne piuttosto che fare un film che non mi piace”

“I film oggi mostrano soltanto un mondo di sogni e hanno perso contatto con la vita reale. In questo Paese la gente è già morta emozionalmente a 21 anni, forse ancor prima. Come artista, la mia responsabilità consiste nell’ aiutare la gente a superare i 21 anni. I miei film sono un percorso nelle emozioni e nella vita intellettiva, che offrono un possibile modo di evitare il dolore. Il film è un’investigazione sulla vita, un’esplorazione, un continuo interrogarsi sulla gente”. John Cassavetes

Ultimo appuntamento per quest’anno del Cineclub Canudo con il cinema d’autore, con una rassegna a ottobre, curata da Antonio Musci e Daniela Di Niso, intitolata “Under the influence – Il cinema di John Cassavetes”. Come sempre le proezioni si terranno ogni lunedì alle ore 21.00, presso il Centro Giovanile Cappuccini (sito in via M. Terlizzi, nei pressi della Chiesa Cappuccini) a Bisceglie. In programma quattro capolavori dell’indiscusso padre del cinema indipendente americano, ovvero: l’1 ottobre Ombre (Shadows) del 1961, l’8 ottobre Volti (Faces) del 1968, il 15 ottobre Una moglie (A woman under the influence) del 1974, il 22 ottobre La sera della prima (Opening night) del 1977.
In un libro dedicato a Cassavetes, dice di lui l’autore, Thierry Jousse, che è stato redattore capo dei Cahiers du cinéma: «John Cassavetes è, già da tempo, un vero e proprio mito del cinema moderno. La sua scomparsa, avvenuta il 3 febbraio 1989 a Los Angeles, lo ha confermato. Tra tutti i cineasti americani venuti alla ribalta negli ultimi trent’anni, è forse quello che ha maggiormente colpito l’immaginario della cinefilia europea, anche al di là delle sue intenzioni. Era attore affascinante come pochi altri. Dava all’Europa un’immagine dell’America che il vecchio continente amava contemplare: l’indipendente, spiantato ma pieno di energia, in perenne lotta con l’enorme macchina capitalistica hollywoodiana. Manteneva una confusione esemplare tra la propria vita e la propria opera».
Ecco alcune dichiarazioni dello stesso Cassavetes sul significato della propria opera e del suo ruolo di artista nella società contemporanea:
Io sono un attore professionista e un regista dilettante.
Tutti i miei film cercano di rappresentare una cosa, l’amore, la necessità dell’amore, e poi la grande quantità di complicazioni provocata dall’amore.
Per chiunque, incluso me stesso, è difficile dire quello che davvero vuoi dire, quando quello che vuoi dire è doloroso. È questo che manca nel genere di film commerciale dove le categorie sindacali ti mettono davanti un orologio, già pensano al prossimo lavoro e si attengono al loro buco in quella piccionaia di esistenza dove la società organizzata li ha sistemati.
Io credo a questo: non ci sono che individui. Le denominazioni contano poco. Due film di due individui diversi non si assomiglieranno mai. Ognuno ha la sua impronta originale. Quando si fa un film non ci si sente parte di un movimento. Si vuole fare un film, questo film, personale, individuale e lo si fa, con l’aiuto dei propri amici.
Il fatto di essere artista non è nient’altro che il desiderio, la volontà forsennata di una espressione completa, assoluta di sé stessi. Riuscire a far esprimere gli altri come loro vogliono e non come voglio io: ecco l’unico talento che potrei vantare. Tutti i personaggi dei miei film si esprimono come vogliono loro, mai come avrei potuto volere io.
Il cinema è un’arte, un’arte bellissima. Siamo noi ad essere sopraffatti dalla follia.
Quando faccio un film m’interesso più alla gente che lavora con me che al film in sé, al cinema. Per me la realizzazione di un film è qualcosa che coinvolge tutti coloro che vi partecipano. Non penso mai a me stesso come regista (infatti credo di essere uno dei peggiori registi esistenti): io non conto, non faccio nulla. Sono responsabile del film nella stessa misura in cui ne sono responsabili tutti gli altri che vi partecipano e vi vogliono esprimere se stessi e sentono questa loro partecipazione al film come essenziale, innanzi tutto per loro… Per me i film hanno poca importanza. È la gente che è più importante.
La tecnica, la messa in scena non sono altro che una sorta di prostituzione, che non m’interessa affatto. Fare un film – cioè raccontare la storia di un uomo, di una donna, di due o più persone, in meno di due ore o in almeno due ore – è un’impresa terrificante che merita molto più dell’abilità tecnica di una prostituta.
Quel che importa è convincere il pubblico e voi stessi che ciò che c’è sullo schermo succede veramente. In certi casi avrei preferito che certi film fossero inquadrati meno bene, fossero tecnicamente meno brillanti, purché quello che vi accadeva fosse migliore! Non penso mai di adattare le scene alla camera, bensì la camera alle scene.
Nella maggior parte dei film hollywoodiani gli attori non si incontrano mai. M’è capitato di recitare in un film e di venire a sapere soltanto alla fine che c’era questo o quell’altro attore. Nei miei film ci riuniamo per parecchie settimane, la sera ad esempio, e leggiamo il copione insieme. Ci vogliamo bene, ci conosciamo e lavoriamo insieme da tempo. Gli attori arrivano con dei suggerimenti e io chiedo loro di metterli per iscritto perché talvolta non li comprendo bene… Tutto è discusso, nulla scaturisce soltanto da me.
Per me ci sono due tipi di recitazione. Il modo professionale consiste nel prendere una sceneggiatura e fare il proprio lavoro il meglio possibile, rendere le cose credibili nei modi assegnati. L’altro modo è l’interpretazione creativa, che tende, senza preoccupazioni di carriera o di profitto, a rendere la propria vita più chiara attraverso l’espressione dei sentimenti e l’esercizio dell’intelligenza. Forse questo non ha più alcun rapporto col cinema: è ritrovare sé stessi nel personaggio.
Se ho un dono come regista, è quello di creare un’atmosfera dove tutti possono comportarsi naturalmente in una determinata situazione.

(dichiarazioni tratte da un’intervista ai “Cahiers du cinéma”, n. 205, ottobre 1968 e da un’intervista a “Positif”, n. 180, aprile 1976; riportate in Sergio Arecco, John Cassavetes, Firenze, La Nuova Italia, 1980 e in Pierpaolo Loffreda, John Cassavetes: la vita in presa diretta, “Cineforum”, n. 342, marzo 1995)

Per informazioni contattare il Cineclub Canudo ai seguenti recapiti:

340.2215793 / 340.6131760 / info@cineclubcanudo.it
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